L'incontro si è svolto, alla sera del 9 maggio 2019. Alcune indicazioni: reggere lo squilibrio, partire dall'umiltà, coltivare il disinteresse, con lo spirito delle Beatitudini.
INCONTRO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
CON I PARTECIPANTI AL CONVEGNO DELLA DIOCESI DI ROMA
Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, giovedì 9 maggio 2019, c'è stato l'incontro del Santo Padre con i partecipanti al Convegno della Diocesi di Roma. Qui sono riportati alcuni passaggi del discorso.
Non dobbiamo risistemare la diocesi, ma reggere lo squilibrio
Abbiamo sentito negli interventi precedenti gli squilibri della città, lo squilibrio dei giovani, degli anziani, delle famiglie… Lo squilibrio dei rapporti con i figli… Oggi siamo stati chiamati a reggere lo squilibrio. Noi non possiamo fare qualcosa di buono, di evangelico se abbiamo paura dello squilibrio.
La prima tentazione che può venire dopo avere ascoltato tante difficoltà, tanti problemi, tante cose che mancano è: “Dobbiamo risistemare la città, risistemare la diocesi, mettere tutto a posto, mettere ordine”. Questo sarebbe guardare a noi, tornare a guardarci all’interno.
Ho preso nota delle cose che ascoltavo e che mi toccavano il cuore… Sulla strada del “sistemare le cose” avremo una bella diocesi funzionale. Siamo caduti nella dittatura del funzionalismo. È una nuova colonizzazione ideologica che cerca di convincere che il Vangelo è una saggezza, è una dottrina, ma non è un annuncio, non è un kerygma. E tanti lasciano il kerygma, inventano sinodi… che in realtà sono “risistemazioni”. Per essere un sinodo ci vuole lo Spirito Santo… che incomincia daccapo.
Partire dall’umiltà
Quando il Signore vuole convertire la sua Chiesa, cioè renderla più vicina a Sé, più cristiana, fa sempre così: prende il più piccolo e lo mette al centro, invitando tutti a diventare piccoli e a “umiliarsi” – dice letteralmente Matteo 18,1-14 – per diventare piccoli, così come ha fatto Lui, Gesù. La riforma della Chiesa incomincia dall’umiltà, e l’umiltà nasce e cresce con le umiliazioni. In questa maniera neutralizza le nostre pretese di grandezza.
Solo chi segue Gesù per questa strada dell’umiltà e si fa piccolo può davvero contribuire alla missione che il Signore ci affida. Chi cerca la propria gloria non saprà né ascoltare gli altri né ascoltare Dio, come potrà collaborare alla missione?
Uno di voi mi diceva che non voleva incensare: ma fra noi ci sono tanti “liturgisti” sbagliati che non hanno imparato a incensare bene: invece di incensare il Signore, incensano sé stessi e vivono così. Chi cerca la propria gloria, come potrà riconoscere e accogliere Gesù nei piccoli che gridano a Dio? Tutto il suo spazio interiore è occupato da sé stesso o dal gruppo a cui appartiene per cui non ha né occhi né orecchie per gli altri.
Quindi il primo sentimento da avere nel cuore è l’umiltà e il guardarsi bene dal disprezzare i piccoli, chiunque essi siano, giovani affetti da orfanezza o finiti nel tunnel della droga, famiglie provate dalla quotidianità o sfasciate nelle relazioni, peccatori, poveri, stranieri, persone che hanno perso la fede, persone che non hanno mai avuto la fede, anziani, disabili, giovani che cercano il pane nell’immondizia… Soltanto in un caso ci è lecito guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla ad alzarsi. Chi è senza umiltà e disprezza non sarà mai un buon evangelizzatore, perché non vedrà mai al di là delle apparenze.
È lo Spirito che spinge ancora una volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che ci salverà dalla “risistematizzazione” diocesana.
Coltivare il disinteresse
Il secondo tratto necessario è il disinteresse. Viene espresso nel brano della parabola del pastore che va in cerca della pecora che si è smarrita. Non ha nessun interesse personale da difendere, l’unica preoccupazione di questo buon pastore è che nessuno si perda.
Abbiamo interessi personali, noi qui? La vanità? Ognuno ha il proprio. Siamo preoccupati delle nostre strutture parrocchiali? del futuro del nostro istituto?, del consenso sociale?, di quello che la gente dirà se ci occupiamo dei poveri, dei migranti, dei rom? O siamo attaccati a quel po’ di potere che esercitiamo sulle persone della nostra comunità?
Il disinteresse per sé stessi è la condizione necessaria per poter essere pieni di interesse per Dio e per gli altri, per poterli ascoltare davvero.
C’è il “peccato dello specchio”. E noi, preti, suore, laici cadiamo tante volte in questo peccato dello specchio: si chiama narcisismo e autoreferenzialità. Il Signore ha ascoltato il grido degli uomini che ha incontrato e si è fatto loro vicino, perché non aveva nulla da difendere e nulla da perdere, non aveva “lo specchio”.
Noi, invece, siamo spesso ossessionati per le poche pecore che sono rimaste nel recinto. E tanti smettono di essere pastori di pecore per diventare “pettinatori” di pecore squisite. E passano tutto il tempo a pettinarle.
Tutto merita di essere lasciato e sacrificato per il bene della missione. Mosè, di fronte alla missione, ha avuto paura, ha fatto mille resistenze e obiezioni; ma alla fine, è sceso con Dio in mezzo al suo popolo. Che il Signore ci riempia il cuore dell’audacia e della libertà di chi non è legato da interessi e vuole mettersi con simpatia in mezzo alle vite degli altri.
Con lo spirito delle Beatitudini
L’ultimo tratto del cuore, necessario per ascoltare il grido e per evangelizzare, è avere sperimentato le Beatitudini. Le Beatitudini: significa avere imparato dal Signore e dalla vita dov’è la gioia vera, quella che il Signore ci dona, e saper discernere dove trovarla e farla trovare agli altri, senza sbagliare strada. Vediamo in alcuni movimenti pelagiani o in alcuni movimenti esoterici, o gnostici, che oggi ci sono tra noi: sono le proposte egocentriche. Invece, le Beatitudini sono teocentriche, guardano la vita, ti portano avanti, ti spogliano ma ti rendono più leggero nel seguire Gesù.
Alle persone fragili, ferite dalla vita o dal peccato, ai piccoli che gridano a Dio possiamo e dobbiamo offrire la vita delle Beatitudini che anche noi abbiamo sperimentato, cioè la gioia dell’incontro con la misericordia di Dio, la bellezza di una vita comunitaria di famiglia dove si è accolti per quello che si è, delle relazioni davvero umane piene di mitezza.
Fate parlare i vecchi: non per diventare antiquati, no, per avere l’odore delle radici e potere andare avanti radicati. Noi, con questa tecnologia del virtuale, rischiamo di perdere il radicamento, le radici, di diventare sradicati, liquidi – come diceva un filosofo – oppure, come piace piuttosto dire a me, gassosi, senza consistenza, perché non siamo radicati e abbiamo perso il succo delle radici per crescere, per fiorire, per dare frutti.
Due compiti per il prossimo anno
Faccio due sottolineature, che, in vista del cammino del prossimo anno, rappresentano anche i due compiti che vi affido.
Il Signore benedica il nostro ascolto della città.
Dobbiamo poter tradurre l’orientamento datoci dal nostro Vescovo in gesti concreti e in scelte pastorali che ci aiutino a percorrere un’altra tappa del nostro cammino, che inizia fin da ora e proseguirà lungo tutto il prossimo anno pastorale. Per far questo occorrerà che in ogni parrocchia si formi una équipe pastorale che avrà il compito di guidare e dare autentica concretezza all’ascolto della gente del proprio territorio: individuando situazioni, ambienti di vita, persone concrete delle quali farsi carico, per riconoscere che cosa il Signore ci stia chiedendo attraverso di loro.
Lettera del Card. Vicario Angelo De Donatis, 17 maggio 2019