Intervista di don Flavio Peloso a don Giuseppe Sorani che racconta la sua storia di adolescente salvato durante la persecuzione razziale contro gli ebrei, poi battezzato, religioso e sacerdote della congregazione di Don Orione, tessitore dell'ecumenismo e del dialogo.
Fu parroco alla Mater Dei dal 1987 al 1991. E' morto il 19 settembre 2018.
Come ha vissuto lei e la sua famiglia quel terribile anno?
Dopo la caduta del governo fascista, il 25 luglio 1943, a Roma ci fu un momento di euforia popolare con manifestazioni e saccheggi dei simboli fascisti. Quell'esaltazione fu gelata improvvisamente quando i nazisti ripresero il controllo di Roma dopo la famosa battaglia a San Paolo, l'8 settembre. Poi, come noto, il 16 ottobre di quel 1943, ci furono la razzia e gli arresti nel ghetto di Roma cui seguì la ricerca, da parte dei nazisti e del fascismo, degli ebrei che abitavano anche fuori del ghetto. Dall'anagrafe del Comune avevano tutte le indicazioni sugli ebrei. Quello è stato il momento più brutto perché hanno deportato e ucciso molta gente.
Tutti ci siamo nascosti come potevamo, nei paesi, nei casolari. Il papà, Garibaldo, era medico condotto e la nostra famiglia viveva, benvoluta, alla stazione sanitaria di Acilia. Mamma, Emma, era morta qualche anni prima per le angustie delle leggi razziali del 1938. Io ero un ragazzo di 14 anni e mio fratello Giovanni ne aveva 16. In un primo tempo, papà ci ha nascosti presso qualche contadino che ci conosceva. Dopo lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944, siamo venuti a Roma, in un appartamentino in via Giovanni Miani, dalle parti di Porta Ostiense, che i miei avevamo in affitto; qui siamo rimasti nascosti solo noi due. Papà trovò protezione all'ospedale Fatebenefratelli dell'isola Tiberina, sotto altro nome, alternandosi nel ruolo di medico e in quello di ammalato, a secondo dell'opportunità. Poi, quando c'è stato lo sfollamento di Acilia ed era troppo pericoloso per noi due rimanere nell'appartamento di via Miani, io e Giovanni siamo stati portati all'Istituto di Don Orione di Via Induno, a Trastevere, come orfani sfollati. Eravamo piccoli di statura ma già grandi di età; ci portarono amici nostri del Comune di Roma, senza dire niente della nostra realtà ebraica: solo che eravamo sfollati.
Due ebrei in un Istituto cattolico. Come era la vita?
All'Istituto di Via Induno, nessuno ci conosceva e noi non dovevamo dire niente. Don Piccinini diceva che noi eravamo stati affidati dal Comune. Si formò un bel gruppo di ragazzi ebrei e naturalmente ci conoscevamo di faccia, di nome. Avevamo però imparato a fare il volto da sfinge. Siccome tutti i ragazzini andavano in chiesa, tutte le mattine, ci mettevamo in fila pure noi, pur non conoscendo nulla del mondo cristiano. Fra di noi, solo uno, Bruno Camerini, chiese apertamente di essere esonerato dall'andare in chiesa. Questo è sicuro perché me lo ricordo, come ricordo la meraviglia di molti per il fatto che non facevamo mai la Comunione.
Ricorda qualche particolare episodio di quei mesi?
All'Istituto c'era gente molto eterogenea. C'erano nascosti anche soldati, ufficiali, alcuni vestiti da prete. Rimase famoso il terribile fatto di Nicola, un giovane ucraino, che quando si è formata la repubblica di Salò ha lasciato l'Istituto. Dopo qualche giorno è ritornato guidando una pattuglia di “repubblichini” che venne a perquisire l'Istituto e ad arrestare persone. Nicola sapeva tutto della casa e indicava l'identità di ciascuno: ebrei, giovani militari italiani, ufficiali, ha raccontato tutto. Molti ebrei hanno fiutato il pericolo e sono scappati come hanno potuto, addirittura si buttavano dalla finestra, come fece mio fratello. Io non mi ero reso conto subito della situazione. Ci hanno portato giù nel refettorio. Poi vidi arrivare uno a uno quelli che venivano scovati dai loro nascondigli di fortuna. Io ero nella fila quando Nicola indicava chi era ebreo e chi no. Giunse il mio turno. L'Ufficiale ha fatto cenno a Nicola come al solito, con la pistola puntata alla mia tempia. Nicola, forse perché era ubriaco o forse perché io, da rosso di carnagione ero sbiancato, comunque non mi ha riconosciuto. E fui salvo.
Ricordo benissimo che alcuni di quei giovani militari arrestati gli hanno detto “se riusciamo vivi ti daremo il cambio”. Dopo la guerra, quando sono venuti gli americani, hanno rintracciato questo Nicola oltre Via della Camilluccia, a Monte Mario, e l'hanno linciato. Di quelli arrestati a Via Induno credo che se ne siano salvati pochi. E' stato un momentaccio terribile.
Quindi rimase all'Istituto di Via Induno fino alla liberazione?
Fino all'arrivo degli americani e alla liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, sono rimasto ancora a Trastevere così com'ero naturalmente, cercando di avere notizie dei miei familiari.
Ricordo che in quei giorni Don Piccinini mi ha affidato la cura di un ufficiale nazista, ora nascosto lì. Mi ha detto: “Non sappiamo come fare per questo povero nazista”. Era nascosto dietro una tenda e io gli portavo da mangiare. Così per un mese o due, mi pare, fin che passò la tempesta, perché i partigiani avrebbero ammazzati tutti i tedeschi, come reazione. Mi fece impressione che quell'ufficiale fosse ancora convinto della giustezza dell'ideologia nazista; era ancora convinto che gli ebrei dovessero essere tutti fulminati.
Un bel tirocinio di riconciliazione e di pace per lei adolescente. E come proseguì per lei la vita dopo aver lasciato Via Induno?
Dopo la liberazione abbiamo dovuto ricominciare tutto. La prima cosa più importante da fare era cercare di ricucire un po' i rapporti. Non avevamo più notizie degli altri familiari da un anno. Dove trovarli? Poi c'era da riprendere gli studi. Erano anni che non andavamo a scuola perché tutto era chiuso, tutto proibito a noi ebrei.
A Milano, il fratello più grande si era messo a fare il facchino alla stazione centrale e con i soldi andava a studiare all'Università Cattolica. Don Piccinini ha continuato ad aiutare me e Giovanni. Don Piccinini ha avuto sempre un grande senso di rispetto, di attenzione, di prudenza. Ho potuto frequentare la scuola magistrale presso l'Istituto orionino “San Filippo Neri” di Roma.
I preti si fidavano molto di mio fratello; lui era molto bravo, serio; io apparivo meno affidabile. Comunque Don Piccinini mi portava con sé. Ricordo che mi portò dall'ex ministro Ferruccio Lantini, nascosto e in attesa di giudizio; mi fece conoscere Arrigo Minerbi, lo scultore ebreo nascosto al San Filippo, Levi Dalla Vida e altre persone e fatti del mondo ebraico.
Di questo tempo è anche il suo passaggio al cristianesimo e il battesimo. Come avvenne?
Prima il fratello Giovanni e poi anch'io abbiamo aderito alla fede cristiana. Ho ricevuto il Battesimo e la prima Comunione nel giorno di San Pietro, il 29 giugno 1945, alla Casa dell'Orfano di Trastevere. Nello stesso giorno ricevetti anche la Cresima in San Giovanni in Laterano da mons. Edoardo Tonna; padrino fu il senatore Antonio Boggiano Pico. Finito il corso magistrale, l'11 ottobre 1947, feci ingresso in Congregazione con la vestizione e con il noviziato presso l'Istituto Santa Maria di Via Massimi.
Chi ricorda dei sacerdoti dell'Istituto di Trastevere?
Ricordo in particolare Don Chizzini e Don Dall'Ovo. Don Liberalon si occupava degli sbandati raccolti nel campo Bruno Buozzi. Don Liberalon ha aiutato molto questi ragazzi, per farli studiare, e dava loro quattro soldi ogni tanto.
E della sua famiglia che ne fu? Come passò quel periodo oscuro?
Durante quel terribile anno, la famiglia si è dispersa e ognuno si è nascosto come ha potuto. Mio papà, che era medico, è sempre stato nell'ospedale Fatebenefratelli dell'isola Tiberina.
Il più grande, Giuliano, era già sposato e, di fronte al pericolo, è andato via in modo avventuroso; ha preso una barca a Pescara e, costeggiando l'Adriatico, è arrivato al Sud oltrepassando la linea di confine degli eserciti.
Il secondo, Giorgio, era pure sposato con un bambino, però segretamente, e aveva un amico sacerdote. Credo che sia stato lui poi a riunire la nostra famiglia. Era riuscito a fuggire di casa quasi miracolosamente. All'arrivo dei tedeschi, qualcuno che lo conosceva, di mattino presto, gli ha telefonato di scappare di casa perché stavano venendo. Quando i soldati sono arrivati, hanno bussato, hanno sfondato la porta ma essi non erano là.
Un altro fratello, Claudio, invece è rimasto a lungo nascosto in una soffitta come Anna Frank. Gli portava da mangiare e da bere la fidanzata; sotto quella soffitta dove stava lui, c'erano due vecchietti. È rimasto nascosto per mesi senza potersi muovere né camminare.
Ricordare è educare. Quale può essere l'insegnamento di questi fatti?
Questi sono i fatti, ma poi diventa molto importante capire gli atteggiamenti che stanno dietro i fatti e che maturano a partire dai fatti. L'atteggiamento certo si può capire un po' di più se è legato ad una esperienza personale. Faccio un caso.
Si faceva un ritiro al Liceo di Villa Moffa, di pomeriggio. Penso che ci fossi anche tu allora, studente. Il predicatore aveva fatto tutto il suo discorso parlando contro gli ebrei, ma in una forma vergognosa. Ed eravamo negli anni ‘70, dopo il Concilio!
In cappella, i chierici si voltavano indietro a guardarmi, perché la cosa era sfacciatamente negativa. Usciti mi hanno detto: “Glielo diciamo che lei è ebreo?”. Io ho risposto: “No, parlo io con lui”.
Dopo il ritiro, ci siamo trovati in crocchio a parlare con il predicatore. L'ho ringraziato del ritiro e gli ho detto: “Padre, sono contento del ritiro, però ha avuto espressioni di cattiveria e di ostilità nei confronti del mondo ebraico”. E gli ho ripreso alcune espressioni. Lui voleva farmi vedere la Bibbia , ma io gli ho detto: “Guardi che le sue interpretazioni mi pare che non siano secondo la Bibbia ”.
Lui si è trovato a corto di argomenti. “Ma io li conosco gli ebrei, e lei li conosce?”, quasi mi sfidò. “Un po'”, risposi. E ripresi: “Vede, se conoscesse gli ebrei non potrebbe parlare così”.
Tutti sorridevano e volevano intervenire. Poi ho continuato: “Padre, guardi che qualcuno pensa di conoscere gli ebrei. Probabilmente lei non li avrà mai conosciuti, perché se avesse avuto contatti personali con qualcuno, non avrebbe detto certe cose”.
L'episodio dice che non è questione di rilevare o anche rimproverare aspetti negativi o anche antipatici nei confronti degli altri, ebrei in questo caso. Si tratta di educare un atteggiamento di ascolto, di rispetto, di apertura alla verità. Se avessi parlato come ebreo, immediatamente quel buon Padre avrebbe detto: “Hai capito? Dice questo perché è ebreo”, e non sarebbe giovato a niente. È da far capire che il problema non è personale, né di categoria o di razza. Ciò che conta è la realtà, la verità, e solo nel suo rispetto ci può essere autentica convivenza, comunione, pace.